3 motivi per vedere “VAS”

Esce domani al cinema VAS – Quando il dolore diventa un linguaggio d’amore

Quanto siamo disposti a soffrire pur di sentirci visti?

VAS, opera prima di Gianmaria Fiorillo, porta sul grande schermo una storia che parla d’isolamento, connessione e vulnerabilità. Una storia che appartiene a una generazione cresciuta tra lockdown, agorafobia e relazioni costruite dietro uno schermo.

Camilla e Matteo, due giovani hikikomori, si amano senza mai incontrarsi davvero: misurano il loro dolore — fisico ed emotivo — con la VAS, la Visual Analogue Scale utilizzata in medicina. Ma presto il loro gioco diventa qualcosa di più profondo, un percorso verso il trauma e verso la possibilità di uscirne.

Un film che sorprende per delicatezza e durezza, per onestà e fragilità.

3 motivi per cui vale la pena vedere VAS

1 – Perché racconta un fenomeno che riguarda moltissimi giovani, soprattutto dopo il Covid

VAS affronta con lucidità il tema dell’isolamento volontario, un fenomeno in costante crescita che durante il periodo pandemico è letteralmente esploso.

La scelta di rifugiarsi nelle proprie stanze, di ridurre la socialità al digitale, di percepire il mondo esterno come minaccioso: tutto questo è parte dell’universo hikikomori. Il film non giudica, ma osserva. E, nel farlo, restituisce una fotografia realistica e necessaria di un disagio che tocca un’intera generazione.

2 – Per le interpretazioni intense di Eduardo Scarpetta e Demetra Bellina

Scarpetta e Bellina riescono a rendere credibili personaggi che vivono senza vivere davvero. Il dolore fisico che appare sullo schermo potrebbe far pensare “questa storia non mi riguarda”, ma il regista ribalta la prospettiva:

le ferite emotive sono spesso più profonde di quelle visibili.

Il rapporto vittima–carnefice non è solo un gioco erotico, ma una dinamica psicologica che può assumere forme sottili, quotidiane, invisibili. E gli attori la restituiscono con una verità sorprendente.

3 – Perché un esordiente usa una tecnica matura e perfettamente aderente al tema

Gianmaria Fiorillo sceglie un linguaggio ibrido: videocamere, smartphone, schermi che diventano specchi emotivi. Questa scelta non è un vezzo stilistico, ma la riproduzione di come realmente viviamo oggi — tra videochiamate, chat, stanze che diventano mondi.

La regia gioca con i punti di vista, con le distanze, con il continuo oscillare tra ciò che è reale e ciò che è narrato sui social. Un esordio che dimostra coraggio e consapevolezza.


VAS è un film che nasce da un’urgenza personale del regista: il trasferimento lontano da casa, lo smarrimento nel caos urbano, la fuga in una stanza che diventa rifugio. Da quell’esperienza Fiorillo rilegge il testo teatrale di Sara Sole Notarbartolo trasformandolo in un racconto profondamente contemporaneo.

Camilla e Matteo vivono chiusi nelle loro camere, protetti da gusci che non sanno più abbandonare. Le loro interazioni avvengono esclusivamente tramite schermi: messaggi, videochiamate, giochi di ruolo che lentamente scivolano in un erotismo distorto. Camilla usa la scala del dolore — la VAS — come elemento narrativo per i suoi contenuti social: più alto è il livello di sofferenza, più aumentano i follower.

E qui sta l’intuizione più forte del film:

il dolore come spettacolo, come linguaggio, come valuta emotiva nell’era dei social.

L’arrivo di Adriano, l’unico personaggio che vive davvero nel mondo reale, rompe gli equilibri e costringe i protagonisti a guardare la propria paura da una prospettiva esterna. Il crescendo emotivo porta a un finale che non è consolatorio ma liberatorio: la rottura dello schermo diventa la rottura di un muro interiore.

Fiorillo firma un’opera prima che unisce sensibilità sociale, regia consapevole e una sorprendente adesione alla realtà dei giovani contemporanei. Un film necessario.

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